ENDODONZIA
16 novembre 2020

"L’endodonzia digitalmente guidata”. Diamo la parola all’esperto.

Redazione Management Odontoiatrico
Nel corso del congresso residenziale Coig-Aiog nazionale a Bologna in Ottobre, abbiamo incontrato il Dott. Lele Ambu al termine della sua relazione dal titolo “Endodonzia guidata. Ruolo dei mezzi digitali in endodonzia”. Il Dott. Ambu, che ci ha concesso questa intervista, si è Laureato nel 1989 a Bologna in Medicina e Chirurgia per poi perfezionarsi in Endodonzia nel 1989 all’Università di Firenze. Dal 2002 ha insegnato e diretto corsi universitari e di perfezionamento post-laurea in numerose Università italiane e Straniere. È Socio attivo della Sie, dell’AIE e certified member della ESE. Autore e co-autore di libri di Endodonzia e autore di oltre 30 articoli scientifici. La sua attività professionale clinica è riservata all’Endodonzia e alla chirurgia endodontica, orale e implantare nello studio di Bologna.

Buon giorno dott. Ambu, innanzitutto, come si diventa un endodontista vista la mancanza di un corso di specialità universitario?
Il mio percorso, iniziato nel 1989, è passato attraverso la frequentazione di corsi privati (il più importante nel 1993 con il Dottor Castellucci) e di congressi e corsi delle Società Scientifiche. Nel 1998 ho frequentato il corso di Perfezionamento di Endodonzia della Professoressa Pagavino presso l’Università di Firenze. Quindi nel 1999, con l’accettazione come Socio Attivo nella SIE (a cui seguiranno quelli di Active Member della ESE nel 2001 e quello dell’AIE nel 2013), ho cominciato a limitare la mia pratica clinica all’Endodonzia Clinica e Chirurgica, con qualche incursione nelle “altre chirurgie”, quali quella implantare, quella parodontale e quella orale. A mio parere, dunque, il giovane collega che si affaccia alla Professione, proprio in assenza di una Scuola di Specialità, dovrebbe iniziare il suo percorso con un corso (privato o universitario) che gli fornisca delle solide basi teoriche e delle indicazioni pratiche, da utilizzare immediatamente nella propria pratica clinica. Un suggerimento che mi sento di dare è quello di non scendere mai a compromessi, né con i pazienti, né con i colleghi titolari di studio, per quel che riguarda i principi della pratica clinica. Fare un trattamento fuori dalle linee guida scientifiche non solo non sarà gratificante per noi, ma probabilmente non sarà efficace per curare il paziente, con tutte le conseguenze del caso. L’Endodonzia è probabilmente la branca più complessa dell’Odontoiatria, ma se ben eseguita può portare a percentuali di guarigione raramente ottenibili durante la pratica medica.

In una sua recente relazione ha messo in evidenza il ruolo degli strumenti digitali in fase diagnostica. Cosa cambia da una diagnosi 2D a una in 3D con la CTBC? Quale differenze in termini di accuratezza?
Da oltre 100 anni gli odontoiatri usano la radiologia bidimensionale e hanno imparato a “leggere” le radiografie endorali. Il problema è che la radiografia endorale ha moltissimi limiti, il primo dei quali è il fatto di fornire un’immagine bidimensionale di una realtà tridimensionale. Questo significa che la sovrapposizione di strutture esterne al dente, come l’osso corticale o come il processo zigomatico, possono “coprire” l’immagine delle radici, rendendo molto complicata la comprensione dell’anatomia o dei problemi di quel trattamento. In un noto articolo, Estrela e colleghi hanno esaminato oltre 1.400 denti rilevando la presenza di lesioni periapicali utilizzando una OPT, una rx endorale o un esame CBCT. In questo caso le prime hanno rilevato le lesioni nel 17% dei casi, le seconde nel 35% dei casi e l’esame CBCT, invece nel 63% dei casi. Oltre a non vedere le immagini, il Clinico potrebbe essere fuorviato nel giudizio pensando che la lesione non ci sia, invece che giudicare che con quello strumento può non vederla.

Una diagnosi radiologica in 3D rispetto al 2D potrebbe indirizzare un piano di trattamento diverso?
Assolutamente sì. Abbiamo un paio di articoli molto interessanti di Gustavo Rodriguez e colleghi su questo argomento. Uno di questi, “Influence of Cone-Beam computer tomography on endodontic retreatment strategies among general dental praticioners and endodontists”, pubblicato sul Journal of Endodontics nel 2017, ha rilevato che entrambi gruppi (Endodontisti e Odontoiatri generalisti) hanno modificato il loro piano di trattamento nel 49,8% dei casi dopo aver valutato lo stesso utilizzando anche una CBCT, dopo la visione di foto ed rx endorali, oltre alla descrizione del quadro clinico. In altri articoli, i cambiamenti di piani di cura, dopo l’esame CBCT, superano il 60% dei casi.

La CBCT agevola la diagnosi dei nuovi odontoiatri ma potrebbe generare degli errori di valutazione in chi non ha una grossa confidenza di questo strumento?
Come ha accennato, la CBCT “funziona meglio” nelle mani dei giovani colleghi. Ovvero la capacità quotidiana di utilizzo dei mezzi digitali di sicuro favorisce le fasce più giovani della nostra categoria. Come riporta l’analisi di un questionario pubblicato da Setzer e Colleghi nel 2017 sul JOE, l’uso è maggiore nei colleghi che stanno frequentando un programma di specialità in Endodonzia rispetto a quello degli Endodontisti già specialisti. Ciò non toglie che anche un “vecchietto” di quasi sessant’anni come sono io possa imparare ad usare questi dispositivi! Nei 12 anni durante i quali ho avuto una CBCT in ambulatorio ho imparato diverse cose. La prima, e più importante, è che questa macchina non ha risposte da dare, se noi non siamo in grado di fargli le giuste domande. Ovvero l’uso della CBCT, così come quello di qualsiasi mezzo radiografico, ha senso solo durante una visita odontoiatrica approfondita. Non serve a nulla “fare una CBCT” se non si sa quali segni dobbiamo andare a cercare. Segni che non sono gli stessi che possiamo rinvenire in un esame radiografico bidimensionale. Probabilmente la maggior facilità dei giovani colleghi è anche legata ad una abitudine diversa, libera da diversi lustri di “condizionamenti” legati all’uso di mezzi diagnostici meno sensibili che possono avere i colleghi più anziani.

Lo stress del clinico risulta maggiore attraverso una valutazione solamente 2D?
Certamente sì. Oltre alle “evidenze cliniche” che tutti gli endodontisti possono rilevare tutti i giorni, abbiamo il conforto anche di un articolo pubblicato dal gruppo del King College di Londra, dove Patel e Colleghi (JOE 2019 Apr;45(4):406-413. doi: 10.1016/j.joen.2018.12.001) hanno rilevato che lo stress è tra “molto elevato” e “moderato” nel 75% dei casi dove i Clinici usano solo la radiografia endorale per la diagnosi, diventando 5% moderato e 85% leggero se si usa la CBCT e 65% leggero e 35% nessuno stress se si utilizzano strumenti software che aiutano nella diagnosi endodontica utilizzando la CBCT. Come dico spesso, la stessa differenza tra “immaginare” utilizzando le immagini 2D e “comprendere” se si utilizza una immagine 3D.

Cosa si intende per endodonzia guidata? In quali casi è indicato utilizzare le mascherine endodontiche?
Con la definizione “endodonzia digitalmente guidata” si intendono alcune tecniche per la risoluzione di determinati casi clinici utilizzando una “guida” ottenuta tramite l’accoppiamento di un’impronta ottica con i dati di una CBCT. Io eseguo questa tecnica avvalendomi dell’aiuto dell’amico Lorenzo Giberti, del Laboratorio Orisline di Bologna, un Odontotecnico che da 15 anni si dedica alla creazione di guide per la chirurgia implantare guidata. Ho chiesto a lui di fornire dei particolari tecnici che seguono. L’Odontoiatra deve fornire una pianificazione 3D del progetto utilizzando appositi software che nascono per la pianificazione implantare. L’Odontotecnico ha già eseguito la scansione dei modelli (se analogici) in STL o ha utilizzato i dati derivati dall’uso di uno scanner per l’impronta ottica, rilevata dall’Odontoiatra. Dunque inserisce i dati nel programma di pianificazione eseguendo un allineamento tra i dati DICOM e quelli STL. Quindi in laboratorio viene eseguita una modellazione CAD della mascherina chirurgica, definendo la posizione della sleeve nell’asse di inserzione identificato nella progettazione con il software 3D. L’Odontotecnico esporta dunque i file STL e produce la “guida” e il modello utilizzando sistemi di stampa 3D. Infine provvede alla rifinitura della mascherina, all’applicazione della sleeve e al controllo dell’alloggiamento della “guide” sul modello. Attualmente stiamo usando questa tecnica per facilitare alcuni trattamenti, quali il superamento di calcificazioni post traumatiche dei denti frontali (le cosiddette PCO) o le calcificazioni reattive nei denti dei settori posteriori. Inoltre stiamo progettando l’uso di “guide” per rimuovere perni in fibra e frammenti di strumenti rotti nei canali, utilizzando dunque un approccio microinvasivo. Infine trovano indicazione in alcune fasi della Microchirurgia Endodontica, dove consentono di effettuare l’osteotomia e la resezione apicale radicolare con grande precisione.

Esistono lavori scientifici in merito o solamente case report?
Esistono alcune decine di lavori, focalizzati sia sull’uso delle mascherine per la rimozione delle calcificazioni sia sulla chirurgia endodontica. Il primo articolo sulla chirurgia endodontica risale a 13 anni fa, mentre quelli sul trattamento delle PCO partono dal 2015. Non c’è ancora alcun lavoro sistematico, molte sono “case series”. In questo momento un gruppo francese, all’interno del quale troviamo la Dottoressa Antonietta Bordone, sta esplorando le varie indicazioni di questa tecnica ed in particolare si sta concentrando sulle deviazioni che può avere la fresa nel suo utilizzo nel caso di rimozione delle calcificazioni. Sicuramente il loro lavoro porterà a delle conclusioni sui vari problemi della tecnica e a proposte per la loro risoluzione. Come Università di Siena, Istituzione nella quale collaboro da 10 anni con il Prof. Simone Grandini, stiamo seguendo una tesi volta a chiarire alcuni aspetti. Speriamo che, nella parte clinica di questa tesi, che sta prendendo piede in questi giorni con tutte le difficoltà legate al periodo pandemico, si possano valutare le diverse problematiche e sia possibile creare delle proposte di protocollo “basate sulle prove cliniche”.

Ritiene che le mascherine endodontiche siano riservate solamente agli endodontisti o consigliabili anche agli odontoiatri generici?
Allo stato attuale delle ricerche, a mio esclusivo parere, si tratta di tecniche riservate agli endodontisti muniti di strumentazione adeguata. Mi spiego meglio. Per quel che riguarda il trattamento dei canali con calcificazione post-trauma, la Letteratura (tra l’altro eseguita soprattutto “ex vivo” cioè su denti estratti) ci indica una deviazione media della punta di 0,4 mm. Sembrerebbe nulla, ma un piccolo canale aperto a 0,70 mm è un mondo buio, dove è molto complicato rinvenire il tratto canalare aperto, anche se questo è molto prossimo. Un articolo di Buchgreitz e Colleghi ha valutato che in 22 casi su 50 si riesce a raggiungere il canale perfettamente, mentre nei rimanenti 28 ci si arriva in prossimità. Nella mia esperienza, se non si riesce ad avere un accesso ottimale al canale, verificata la posizione della preparazione e la sua distanza dal lume pervio, solo l’allargamento con inserti ultrasonici sotto controllo microscopico può risolvere rapidamente il problema. Ovvero bisogna avere il microscopio e saperlo utilizzare. Gli studi che si stanno tenendo sulla deviazione della fresa e l’introduzione di nuovi strumenti e nuove tecniche potranno, secondo me in breve tempo, risolvere il problema, affidando nelle mani anche di Odontoiatri generalisti questa tecnica. I denti con PCO (Calcificazione con otturazione della polpa) sono comunque pochissimi, e solo un quarto di essi richiede il trattamento per problemi di necrosi pulpare. Maggiori indicazioni potrebbero esserci sull’uso delle mascherine nei settori posteriori, sia per risolvere problemi di calcificazioni reattive sia per rimuovere oggetti come strumenti rotti o perni in fibra dai canali. Si sta lavorando anche in questa direzione, e questa applicazione sarebbe sicuramente molto più richiesta nella pratica clinica quotidiana anche degli Odontoiatri generalisti. Per quel che riguarda l’uso delle guide chirurgiche, questa serve solo per rimuovere l’osso e la radice, tagliandola con precisione. Ma, a parte settori dove la visione diretta dell’apice resecato è molto facile (e quindi non serve una guida per arrivarci) in tutti gli altri casi è sempre necessario il microscopio per reperire i canali, prepararli ed otturarli. Quindi, sempre a mio parere, un utilizzo riservato a migliorare e facilitare quegli Odontoiatri che hanno un microscopio operatorio e conoscono le tecniche della microchirurgia endodontica, volto ad essere utilizzato in alcune indicazioni, come la prossimità degli apici da resecare con strutture anatomiche importanti come il nervo alveolare inferiore o il seno mascellare. Interessanti anche alcune indicazioni all’uso della guida per affrontare le radici palatali per via palatale.

Nelle sue relazioni mostra sempre una grande passione clinica in primis per questa disciplina. Può commentare la sua esperienza?
Mi è sempre piaciuta l’Endodonzia, fin da quando, alla fine degli anni ’80, studente di Medicina e Chirurgia, cominciai a frequentare lo Studio dei Dottori Pierpaolo Badini e Luca Sanna a Bologna. Questi colleghi, che già allora erano soci attivi della Accademia Italiana di Conservativa, mi introdussero ad un tipo di Odontoiatria con regole ben precise e uso di protocolli accreditati. Fin dai primi casi, che ho eseguito nei primi giorni dell’anno 1990, ho utilizzato la diga di gomma e li ho condotti abbastanza bene con la supervisione di questi due Colleghi che sono stati i miei primi Maestri. Dopo alcuni anni ho cominciato ad approfondire il tema dell’Endodonzia, con corsi privati (il più importante quello di Arnaldo Castellucci ben 27 anni fa), per poi arrivare in qualche tempo ad acquistare il mio primo microscopio operatorio (1996) e a diventare Socio Attivo della Società Italiana di Endodonzia (1999) e Active Member della European Society of Endodontology. In quegli anni ho iniziato a limitare la mia pratica clinica all’Endodonzia, con alcune “incursioni” nella chirurgia implantare e rigenerativa. Ancora oggi questa è la mia pratica clinica, accompagnata da una attività universitaria che va avanti da 18 anni (dapprima a Modena, poi negli ultimi 10 anni a Siena) e dalla attività di Relatore a Corsi e Congressi. Ho anche un insegnamento nel master di Endodonzia della Universidad de Valencia (con il mio Direttore, il Prof. Leopoldo Forner), dove abitualmente trascorro 3-4 settimane all’anno impegnato anche in un Diploma di Micro-endodonzia in italiano che tengo nel centro universitario. Ho sviluppato una vera passione nei confronti dell’insegnamento, che spero occuperà sempre più spazio nella mia attività negli anni a venire.

Pensa che diventare un endodontista possa essere un percorso interessante per un giovane laureato oggi?
A mio parere potrebbe costituire per il giovane collega un’ottima opportunità lavorativa. Oggi gli impianti sono al centro di una revisione che ha visto diminuire il loro utilizzo. Il problema è proprio questo: per anni si è pensato che un impianto avesse la stessa valenza di un dente naturale, ma oggi sappiamo che circa la metà di loro presenta dei problemi di perimplantite più o meno severa nel corso degli anni, che in oltre il 30% per cento presenta delle problematiche strutturali e così via. Ovvero che l’impianto non è “tutto oro della cassa”. L’impianto, come disse il Prof. Branemark, dovrebbe sostituire un dente mancante. E se non fosse mancante, dovremmo valutare attentamente come conservarlo. Siamo odontoiatri, ovvero “medici dei denti” e dovremmo porre attenzione soprattutto alla conservazione della salute orale, non alla sostituzione di elementi dentari, soprattutto se recuperabili. Molti giovani colleghi escono dall’Università e vanno a fare un corso di impianti. Sarebbe più opportuno imparassero a curare i denti e i tessuti di sostegno, per poi passare a comprendere come riabilitare una bocca.
I problemi dell’Endodonzia sono molti: è una delle branche specialistiche fondamentali, perché determina la salute dei pilastri dentari in caso di una riabilitazione. La mancanza di una corretta terapia determina spesso la comparsa di lesioni periapicali, che oggi sappiamo essere connesse non solo a problemi locali, ma anche a gravi complicanze sistemiche, come disturbi cardio e cerebrovascolari. Eppure in molti studi dentistici si cerca il neolaureato per seguire l’Endodonzia, dando a questi poveri Colleghi scarsi strumenti specifici per questa attività clinica. A differenza di quel che succede in altri Paesi, la terapia endodontica viene di conseguenza fatta pagare poco o pochissimo, “tanto viene fatta da odontoiatri con poca esperienza e con pochi mezzi”! Anche perché, se compare una lesione periapicale, “cosa c’è di meglio dell’estrazione e l’inserimento di un impianto”? Invece la terapia endodontica, se ben condotta, ha una prognosi molto prossima al 100% di successo, anche in caso di ritrattamenti e chirurgia. Il problema è che costa e costa molto. E che gli Endodontisti capaci sono pochi. Per cui, suggerisco ai giovani colleghi a cui piace questa materia, di intraprendere la carriera dell’Endodontista, che è veramente stimolante e può dare anche soddisfazioni economiche, se si lavora negli ambulatori dove è richiesta una figura di buon profilo.

 

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