MEDICINA ORALE
09 aprile 2025

Imaging intraoperatorio: l’evoluzione verso margini chirurgici ottimali e la promessa dell’autofluorescenza

Giovanni Maria Gaeta

L’evoluzione della chirurgia moderna è indissolubilmente legata all’integrazione di tecnologie avanzate di imaging, un arsenale in continua espansione che mira a ottimizzare la precisione e l’efficacia degli interventi. Negli ultimi decenni, l’avvento di tecniche come la risonanza magnetica (RM), la tomografia computerizzata (TC), la tomografia a emissione di positroni (PET) e altre metodologie, ha segnato una svolta cruciale nella diagnostica e nel trattamento oncologico1-3.

Tuttavia, nonostante i notevoli progressi nell’imaging preoperatorio, l’atto chirurgico rimane fortemente dipendente dalla capacità del chirurgo di localizzare con precisione la patologia attraverso l’imaging convenzionale alla luce bianca. La sfida di garantire margini di escissione ottimali, liberi da tessuto neoplastico residuo, rimane una priorità assoluta in oncologia clinica. La presenza di cellule tumorali residue dopo la resezione è un fattore predittivo chiave di recidiva tumorale e, di conseguenza, di sopravvivenza. Numerosi studi hanno dimostrato che i margini positivi, definiti dall’identificazione di cellule tumorali al confine del campione chirurgico, sono associati a un aumento del rischio di recidiva locale e indicano una prognosi sfavorevole in diversi tipi di cancro, inclusi i tumori della testa e del collo. Nonostante i progressi nell’imaging preoperatorio, il tasso di positività dei margini chirurgici non ha subito variazioni significative negli ultimi decenni, con tassi che variano dal 15% al 60% in diverse tipologie di tumore.

Attualmente, lo standard di cura per ottenere margini negativi si basa sull’ispezione visiva, sulla palpazione e sull’analisi istopatologica intraoperatoria mediante sezioni congelate, tutte tecniche con limiti intrinseci. L’analisi intraoperatoria con sezioni congelate è limitata a specifici tipi di tessuto, richiede tempo ed è soggetta a errori di campionamento, con una discordanza del 5-15% rispetto all’analisi patologica definitiva 4, 5 . In questo contesto, la ricerca di tecniche di imaging intraoperatorio capaci di superare le limitazioni delle metodiche convenzionali ha assunto un ruolo centrale. Negli ultimi 40 anni, molti ricercatori hanno profuso sforzi significativi nello sviluppo di nuove tecniche che si mostrassero capaci di supportare la possibilità di una diagnosi precoce e non invasiva delle lesioni orali potenzialmente maligne (OPMD) e del carcinoma a cellule squamose (SCC). Gli ausili diagnostici proposti, di volta in volta, includevano strumenti di base, come la colorazione vitale (blu toluidina, etc.), dispositivi biochimici (ad esempio la chemiluminescenza e la fluorescenza indotta da protoporfirina IX mediante acido 5-aminolevulinico) o tecnologie più sofisticate come le spettroscopie ottiche (tra cui la spettroscopia a fluorescenza, l’ottica di profondità, lo scattering elastico e la spettroscopia Raman).

Tuttavia, questi approcci ottici non convenzionali a cui si aggiungono test per la genomica salivare, la trascrittomica, la proteomica e la metabolomica ancora in fase di ricerca, presentano diffusione e disponibilità in commercio alquanto limitata. Inoltre, la specificità e la sensibilità di tali test non è ancora molto elevata. È un dato di fatto, questi metodi non hanno mostrato un’accuratezza diagnostica più elevata rispetto a un’attenta ispezione clinica (in particolare se eseguita da specialisti in medicina orale) seguita da biopsia e valutazione istologica di lesioni sospette. Tuttavia, la valutazione istologica di campioni di lesioni (orali) può talvolta essere fuorviante. Infatti, è noto che le biopsie incisionali possono non riflettere la gravità istopatologica dell’intera lesione, portando così al rischio di sottostimare la diagnosi, nonché a terapie errate. L’impossibilità di identificare con certezza aree mucose con alterazioni epiteliali si associa ad altri svantaggi quali l’eventuale necessità di interventi più invasivi (es. biopsie multiple o biopsia escissionale) e la forte dipendenza dalle competenze e dalle conoscenze degli operatori6, 7.

In questo scenario, l’autofluorescenza (AF) emerge come uno strumento diagnostico non invasivo promettente per la diagnosi precoce e la gestione dei tumori del cavo orale e cutanei non melanoma, inclusi il carcinoma basocellulare (BCC) e il carcinoma spinocellulare (SCC). L’AF si basa sui fluorocromi intrinseci presenti nell’epitelio e nella sottomucosa per rilevare lesioni specifiche. Il criterio principale per identificare il tessuto displastico o neoplastico si basa sulla perdita di fluorescenza (ipofluorescenza) rispetto al tessuto sano circostante.

Studi hanno dimostrato che le alterazioni dell’intensità dell’autofluorescenza sono associate a cambiamenti istopatologici nei tessuti cancerosi, come ipercheratosi, neoangiogenesi e fibrosi, che portano a una significativa riduzione dell’intensità dell’autofluorescenza rispetto ai tessuti sani. L’AF si basa sui fluorocromi intrinseci presenti nell’epitelio e nella sottomucosa per rilevare lesioni specifiche. Questo approccio è coerente con la rottura del collagene e le alterazioni dei marcatori metabolici come NADH e FAD contribuiscono a ridurre la fluorescenza nei tessuti cancerosi 8, 9. Nel BCC e nell’SCC, il rapporto medio dell’intensità dell’autofluorescenza è circa quattro volte inferiore rispetto alla cute e alla mucosa sana, suggerendo che l’autofluorescenza può essere determinante per distinguere tra tessuti maligni e normali. Questa tecnica offre il potenziale per migliorare l’accuratezza della valutazione del margine tumorale durante l’escissione chirurgica, riducendo il rischio di recidiva e migliorando i risultati dei pazienti10, 11.

L’analisi dei singoli compartimenti epiteliali ha rivelato il ruolo preponderante della cheratina nella determinazione dell’intensità di AF. Lesioni ipercheratosiche, quali leucoplachia e SCC ben differenziato, (presenza di perle di cheratina) e nel carcinoma verrucoso (presenza di gettoni di cheratina) è possibile ipotizzare che le lesioni più luminose (iperfluorescenti) siano presumibilmente in una fase precoce del processo di sviluppo maligno. Al contrario, le lesioni maligne orali con sottili strati epiteliali e/o cheratinici (o senza cheratina) sono presumibilmente composte da cellule lontane dalla loro linea di sviluppo originale (ad esempio SCC indifferenziato) e probabilmente ad uno stadio successivo di sviluppo maligno. Inoltre, diversi pattern di FA all’interno della stessa lesione (ad es. lesioni disomogenee con aumento e perdita di FA) potrebbero guidare il clinico nella scelta del sito in cui eseguire una biopsia, tenendo conto che le aree ipofluorescenti possono presumibilmente corrispondere a uno stadio più avanzato di sviluppo maligno o a un gruppo di cellule meno differenziato, così come lesioni con cheratina atrofica o assente, quali SCC indifferenziato, presentano marcata ipofluorescenza. La variazione dell’AF in base allo spessore della cheratina consente di differenziare lesioni in stadi evolutivi diversi e di guidare la selezione del sito bioptico.

L’infiammazione cronica può modulare l’AF dei tessuti orali, tramite alterazioni microvascolari e accumulo di infiltrato linfocitario. La presenza di emoglobina può ulteriormente influenzare l’AF, in virtù dell’assorbimento della luce blu tramite la banda di Soret. Tuttavia, l’analisi dello spessore dello strato di cheratina è dirimente nella valutazione di lesioni maligne. La chirurgia guidata dalla fluorescenza (FGS) emerge come uno strumento prezioso, in grado di definire la posizione e i margini del tessuto neopalstico durante le procedure chirurgiche. La visualizzazione intraoperatoria dei tumori non solo consente resezioni più complete, ma migliora anche la sicurezza, evitando danni superflui al tessuto sano, riducendo i tempi operatori e minimizzando la necessità di re-interventi 12, 13 .

L’imaging intraoperatorio avanzato, e in particolare l’AF e l’FGS, si configurano come un’integrazione preziosa all’analisi istopatologica intraoperatoria per la visualizzazione in tempo reale dei margini tumorali, riducendo la necessità di re-interventi e migliorando gli outcome oncologici. Tuttavia, sono necessari ulteriori studi clinici per validare l’accuratezza diagnostica dell’AF in diverse sedi anatomiche e per standardizzare i protocolli di acquisizione e analisi delle immagini. L’integrazione dell’AF con altre tecniche di imaging, quali tomografia a coerenza ottica e microscopia confocale, può fornire informazioni complementari sulla morfologia e la composizione tissutale e rappresentare una prospettiva promettente per il miglioramento della visualizzazione intraoperatoria dei tumori consentendo una definizione più precisa dei margini tumorali14, 15. L’integrazione di tecniche di intelligenza artificiale (IA) per l’analisi automatizzata delle immagini AF e FGS potrebbe ulteriormente migliorare l’accuratezza diagnostica e la standardizzazione dei protocolli16, 17.

L’obiettivo finale è sviluppare sistemi di imaging intraoperatorio multimodale, capaci di integrare diverse fonti di informazione per guidare la resezione chirurgica con la massima precisione e sicurezza. La ricerca in questo campo è in rapida evoluzione, con lo sviluppo di nuovi fluorofori e sistemi di imaging sempre più sofisticati. L’obiettivo è rendere l’imaging intraoperatorio una componente essenziale della chirurgia oncologica, contribuendo a migliorare la prognosi e la qualità di vita dei pazienti (Figg. 1a-3b; Tab. 1).

 

Bibliografia

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